"E' un privilegio preparare la stanza in cui dormirà qualcun altro"
E. Jolley
"Villa Lopez" è un Bed & Breakfast che offre ai suoi ospiti calda accoglienza, intimità, relax, eleganza e cura in ogni particolare.
Il suo blog nasce per raccontare le piccole straordinarie storie di amicizia nate tra una torta di mele ed una chiacchierata in giardino all'ombra "du' Chiozzu", il vecchio gelso che stende i suoi ombrosi rami, paterno e protettivo, e la cui maestosa mole parla di secoli di vita e sembra quasi raccontarti di tutti i monelli che ogni primavera davano la scalata ai suoi rami per "rubare" le sue more.
Tra le pagine di questo blog troverete i pensieri, a volte vere poesie, lasciati dai miei ospiti, veri protagonisti della vita di questo bed&breakfast; troverete pagine scritte proprio da alcuni di loro; troverete, a volte, riflessioni e considerazioni sui problemi di quest'angolo di Calabria e sul turismo; troverete leggende e racconti nati dalla fantasia popolare e tramandati nei secoli; poesie e brani di autori calabresi, spesso sconosciuti.
Il mio invito, a tutti i visitatori di questo blog, a lasciare i propri pensieri e commenti dando così vita e seguito a tante altre bellissime storie di simpatia ed amicizia.


Accomodatevi, prego, se desiderate visitare il mio bed & breakfast
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martedì 1 febbraio 2011

Porta "Amusa"


Porta Amusa

Ormai
non risuona più il ripido selciato:
tacciono il raglio, il nitrito, il belato
e tace l’affannoso fiato
del pastore, del contadino
dall’amaro, ingrato destino.


Immemori le siepi e i muri
silenti le pietre, i tuguri
par sia calato l’oblio
su tutto il paese mio…

Ma nel nuovo silenzio non tace
la vera cultura, tenace
e da ogni pur piccola “strace”
ci chiama ancora Natura:
la madre antica, la vita futura.

Ormai
la Porta non teme incursioni
di vecchi o di nuovi ladroni
e attende sempre aperta
a Caulonia una riscoperta…


Attendono nuovi passi
giovani, lievi, i nostri sassi,
gli antichi custodi di storie
di piccole e grandi memorie.

(Emma Chiera - inedita - 28-29.12.2010)

Notizie storiche su Caulonia e la Porta Amusa




Nell'ottavo secolo a.c. un numero sempre più cospicuo di greci si avventurarono sulle profonde acque del mar jonio e raggiunsero le nostre sponde, dando così origine a quel processo definito da ogni studioso di storia antica l'epoca della seconda emigrazione, ovvero della colonizzazione ellenica sulle coste dell'Italia meridionale e della Calabria jonica in particolare.
Nel corso della loro storia le popolazioni elleniche ( achee, calcidesi, corinzie, laconiche e joniche) conobbero più volte il fenomeno dell'esodo verso terre da colonizzare.
Tarante, Metaponto, Sibari, Crotone, Locri e Reggio e subito dopo Squillace e Caulonia, furono le colonie e le sub-colonie che i greci costruirono lungo il litoranee jonico del mezzogiorno d'Italia. "Nel quinto secolo a.C. le città-stato sorte nel sud della penisola Italiana e in Sicilia erano diventate così numerose che tutta quella parte d'Italia veniva ormai comunemente denominata in greco Megale Hellas e in latino Magna Graecia.
In quella terra che dovevano considerare ricca di favorevoli opportunità i colonizzatori greci importarono il meglio delle loro cultura: poesia, filosofìa, scienza, tecnologia, religione, mitologia e arte. La Grecia d'Occidente, a sua volta, apportò rilevanti contributi culturali e diede i natali a luminari come Parmenide, Empedocle, Archimede. Platone ed Eschilo vi soggiornarono"

(Michael Bennett e Aaron J. Paul).

martedì 24 marzo 2009

Perdunami



"Perdunami Signuri
pe' tuttu chidu chi ti fici,
u' sacciu ca' jeu sugnu
nu' grandi peccaturi,
ma se no' mi perduni tu
chi pozzu fari?

Se jeu ti jestimai, perdunami.
Se jeu ti misi n'cruci, perdunami.
Se quandu i' tia parlavanu l'amici e arridianu,
e puru jeu arridia, perdunami.

Se sulu a'mia pensava, perdunami.
Se no' ti pregava mai, perdunami.
Se quandu 'ntrà 'na cresia, trasiia sulamenti
pem'ù accuntentu a'genti, perdunami.

Parlava senza cuntu, perdunami.
vidija ed era orbu, perdunami.
E se sentia ca' a genti no' 'ndavia mancu u' pani
no' mi 'nd'incarricava, perdunami.

Se mai m'accuntentava, perdunami.
Se jeu no' perdunava, perdunami.
Se mu' mi fazzu largu e diventari randi
zumpai nu' povaredu, perdunami.

Se jeu fù pirchjiu, perdunami.
Se mi fici superbu, perdunami.
E se a' mama e a' patrima chi mi ficiaru nasciri
'nci rispundia mali, perdunami."

Anonimo cosentino.


Questo canto è un componimento originario della provincia di Cosenza, è stato "tradotto" in cittanovese ed accompagna la celebrazione della "Via crucis".
Perchè tradotto? Perchè la "lingua" calabrese non è uguale in tutta la regione; si può parlare di vere e proprie lingue diverse, incomprensibili anche allo stesso calabrese che sia originario di un'altra zona, a seconda quindi che ci si trovi sul versante Jonico o tirrenico, nell'area grecanica piuttosto che nell'alto reggino, o nel catanzarese, nelle aree di lingua "valdese" o "
arbëreshë" e così via per arrivare ad idiomi ormai quasi completamente estinti poichè patrimonio solo di poche e circoscritte zone della Calabria.
Per quanto riguarda questo canto, possiamo notare l'influenza della lingua italiana nella traduzione dal "cosentino" al "cittanovese", avvenuta in tempi relativamente recenti, che da risalto ad una progressiva perdita di vocaboli e di espressioni della lingua originale, anche se, in certa misura, inserimento di espressioni in qualche modo italianizzate, è da attribuire anche alla necessità di rendere il testo più agevole per l'adattamento musicale, data appunto dalle differenze tra "la parlata" cosentina e la cittanovese.

Il mio grazie a Lidia che è stata la mia fonte nel procurarmi il testo completo e le origini del "canto".


Traduzione:
"Perdonami"

"Perdonami Signore,
per tutto (il male) che ti ho fatto.
So di essere un grande peccatore,
ma se Tu non mi perdoni,
cosa posso fare?

Se ti ho bestemmiato, perdonami.
Se ti ho crocifisso, perdonami.
Se quando (i miei) amici parlavano di te deridentoti
e anch'io ti ho deriso, perdonami.

Se ho pensato solo a me stesso, perdonami.
Se non ti ho mai pregato, perdonami.
Se sono entrato in chiesa solo
per farmi vedere dagli altri, perdonami.

Parlavo senza darmi conto (da stolto), perdonami.
Vedevo ed ero cieco, perdonami.
E se ho saputo di gente che non possedeva neanche un tozzo di pane,
non me ne sono curato, perdonami.

Se non sono mai stato contento (di ciò che possedevo), perdonami.
Se non ho mai perdonato, perdonami.
Se per farmi spazio (nella vita) e diventare importante
sono passato sopra al povero, perdonami.

Se sono stato avaro, perdonami.
Se sono stato superbo, perdonami.
Se ho maltrattato mia madre e mio padre
che mi hanno fatto nascere, perdonami.

mercoledì 2 luglio 2008

"Pani e Cipudi"

Un carissimo amico di "Villa Lopez" è l'appassionato autore di questi versi così toccanti e pieni di uno straordinario amore per la propria terra, amore incontenibile per il suo cuore di "esiliato" dal proprio paese e dalle proprie radici.


"Vorrìa mu tornu a Cittannova
Pecchì lu meu penzeru è sempi docu,
Li genti e li vicini chidu jornu
'Mpiccicati mi restaru 'ntra lu cori....

Vorrìa mu tornu ancora cotraredu
Di quandu jia a' la scola a' li barracchi
Mu viju la me' mamma giuvaneda
Cu' li schjiacchi russi 'ntra la facci....

Vorrìa mu' vegnu sulu natra vota;
Mu' viju la me' mamma piccirida:
Cu' sapi quantu voti m'aspettau
Da la hjiangazza dì la porticeda!

Mo' mentri scrivu stì palori
Li gralimi mi spuntanu 'ntra l'occhji
Penzandu sempi a' ida povareda
Di' quantu patiu 'ntra la sò vita....

Vorrìa mu' tornu ancora a' lu Pajsi
'Chesti lu' 'cchju bellu di la "Chiana",
Mu' viju li cotrari di' la scola e 'mun'ci dicu:
Pani e Cipudi ma quandu siti randi
no' 'mbidijiti i' Cittannova!"

Pasquale Barbatano




Pasquale Barbatano, figlio di Salvatore e Maria Teresa Chiaro, è nato a Cittanova il 3 Gennaio del 1926, secondo di dodici figli.
Il padre era un noto commerciante del legno e si occupava anche di agricoltura e di numerosi frantoi per la molitura delle olive e la produzione dell'olio.
Con la guerra del 1943 arrivarono le difficoltà economiche ed il crollo delle attività familiari e Pasqualino con grande dispiacere dovette lasciare gli studi e la sua cara scuola "a' li barracchi", vecchie e famose baracche di legno tirate sù dopo il terremoto del 1908, per aiutare il padre. Nel 1948, alla fine della guerra che l'ha visto militare di leva nell'Aereonautica, si trasferisce a La Spezia dove conosce e sposa la dolce signora Anna. Stimato commerciante è conosciuto in tutto lo "spezzino" per le sue attività nel sociale. Poeta e scrittore continua a ricevere premi e riconoscimenti per le sue toccanti opere.

martedì 24 giugno 2008

"Dhi Sira"; traduzione

Per fare un "regalo" a chi mi segue e calmare così la "sete di sentimenti" vado a tentare la traduzione dei versi, del post precedente, con tutta la modestia di chi vuole solo rendere onore alla Poesia riconoscendo i limiti entro i quali ci costringe il cambio di idioma; è il cruccio di ogni traduttore l'impossibilità di rendere i sentimenti e le emozioni, espressi dall'autore, con la stessa intensità.
In ogni idioma ci sono "espressioni" che sono praticamente intraducibili perchè il "sentimento" al quale danno forma risulta diverso pur se espresso con le stesse parole. Chiedo a tutti perdono, quindi, se il mio intervento non darà le stesse emozioni del testo originale.


"Di Sera"


E' notte; io sono quì, fumo e penso a te
Un bimbo piange in una casa
forse neanche lui ha come me
una mamma che gli dia cure e baci

Chi lo sà se tutto il giorno per un tozzo (di pane)
andò piangendo senza neanche trovarlo
e senza un morso (di pane) in gola*
piangendo per la fame al letto se ne andò

O se (suo) padre tornò ubriaco
e si sfogò con quell'innocente;
o se la madre neanche ebbe il tempo
per distrarlo con una fiaba

Chissà, chissà! Ma intanto non si da pace
per calmarlo nessuno si avvicina.
Io sono sazio e la mia mente è lieta
ma tu mi manchi; è questa la mia spina.



* Nel testo originale "nthra lu gozzu"; espressione tipica della zona che si rifà al modo con il quale gli uccelli cibano i propri piccoli che hanno quindi la "gola" piena prima che il cibo scenda per essere digerito.


A Renata che fedelmente mi segue su questo piccolo blog;
A Laura che si è innamorata tempo fà di questa terra e, regalandomi una immensa gioia, dice di sentire quì un pò di "aria di casa";
A tutti coloro che mi seguono non so se con interesse o con curiosità ma tutte due mi sono ugualmente gradite.

venerdì 20 giugno 2008

"Dhi Sira"

"Esti notti; jeu su chi fumu e penzu a' ttia....
Nu' cothraredhu ciangi 'nthra na' casa
Forzi idu mancu 'ndavi com'a' mia
Na mamma mu' l'addubba e mu' l'abbasa

Cu' sapi si tutt'oji pe' nu' tozzu
Jiu lamijiandu e mancu lu throvau
Senza na' muzzicata 'nthra lu' gozzu,
Ciangendu pe' la fami si curcau.

O si lu pathri si cogghjiu 'mbrjiacu
E si sfogau cu' chidhu 'nocentedu;
O si la mamma mancu 'ndappi abbacu
Pemmu lu' 'nganna cu' nu fattaredhu

Va bbi, va bbi! Ma tantu no' 'nzacqueta
Pemmu lu carma nudhu s'abbicina.
Jeu sugnu saziu, la me' menti esti leta
Ma tu mi manchi; esti chista la me' spina."


Anonimo; Cittanova 8 Settembre 1898


Il manoscritto, venne ritrovato in un'antica casa di Cittanova e in origine, secondo la numerazione dello stesso autore, era composto da 60 pagine delle quali 16 sono andate perdute e sono datate tra la fine dell'Ottocento ed i primi anni del Novecento.
Infruttuose si sono rivelate le ricerche effettuate per identificarne l'autore; non sono state ritrovate pubblicazioni del manoscritto nè è stato possibile attribuirlo, come opera inedita, ad alcun poeta cittanovese noto.
I versi che ho quì trascritto raccontano uno spaccato molto triste e amaro di una Calabria dove convivevano povertà e ricchezze.
Il manoscritto è stato pubblicato nel 2000 a cura del Circolo Rhegium Julii con il titolo 'U Ventagghiu.

giovedì 12 giugno 2008

U' Paradisu

Il vecchio gelso!
Per meglio dire "u' Chiozzu"!
Sei l'ultimo sopravissuto di una piantagione di gelsi; le tue foglie hanno nutrito per secoli i Bachi da seta che generazioni di fanciulle hanno filato.
Quante meravigliose tele e splendidi ricami con quel lucido filo d'oro!
E quante generazioni di ragazzi si sono arrampicate sui tuoi rami per rubarti le dolcissime more!
Quanti di quei ragazzini, ormai canuti, si fermano a guardarti ricordando i giorni delle loro marachelle. Tanti tra loro non possono più tornare ma i loro ricordi aleggiano ancora quì ed i loro occhi lucidi nel volgere lo sguardo verso i tuoi frondosi rami vivono per sempre nella tua memoria, custoditi dalla tua dura corteccia scolpita dai secoli.
Oggi vecchi e nuovi amici si siedono a riposare al fresco dell'ombra che regali generoso.

Ad un tuo caro vecchio amico dedico questi versi della cui esistenza, con l'entusiasmo proprio dell'archeologo della letteratura, venne a conoscenza proprio all'ombra dei tuoi rami e con i quali apre ogni nostra conversazione.



"Fatta di l'anni la mità ccaminu,

mi vitti 'nta nu voscu 'ntrizzicatu,

ca' di la strata no' ngagghjai mu minu.

E chi bi' cuntu d'undi era ficcatu?

'nta spini e stroffi no' pigghjava pista

chi mu' li penzu m'attrassa lu' hjiatu.

Ch'eni la morti si no' era chista?

ma, pe' lu bonu c'àju di cuntàri,

'ncignu a' cuntàri chi' mi vinni 'mbista."

Per chi non ha dimestichezza con la lingua calabrese citerò solo il primo verso dell'opera eccelsa di cui questi versi aprono la traduzione appunto in calabrese:

"Nel mezzo del cammin di nostra vita

Mi ritrovai per una selva oscura .............."

L'opera di traduzione della Divina Commedia in lingua calabrese impegnò gran parte della vita di Don Giuseppe Blasi, sacerdote e poeta, la cui vasta produzione letteraria rimane ancora oggi quasi completamente sconosciuta poichè le sue opere permangono quasi tutte inedite. Si può riconoscere nella traduzione la lingua parlata a Laureana di Borrello della cui zona era originario l'autore.

E' d'obbligo chiudere con gli stessi versi con cui l'autore sciolse il suo "Halleluja" quando, il 15 ottobre del 38 arrivava "ncima a lu Paradisu":

"Fici chi' potti fari.... chi' bboliti?

Si megghjiu lu volivu traduciutu

provati vui e bbidìti s'arrescìti.....

Aju mu' lodu a' Ddeu di quantu ajutu

mi dezzi: di' li magghji di 'sta riti

mu' nesciu e nnommu restu 'nsollenutu."

Ho cercato sul web notizie sulla vita di Don Giuseppe Blasi e sulle sue opere senza trovarne la minima traccia per cui l'unica fonte alla quale posso attingere è proprio l'edizione della sua "Divina Commedia".

Giuseppe Blasi nacque a Bellantone (RC) il 6 aprile del 1881 dove morì il 20 gennaio del 1954. Fù seminarista a Messina dove ebbe modo di conoscere Giovanni Pascoli, che all'epoca insegnava presso quella università; passò quindi al seminario vescovile di Mileto dove compì gli studi classici dimostrando si da allora il suo forte ingegno. Conseguì la maturità classica, da esterno, a Napoli. Fù ordinato sacerdote nel 1904 e, per le sue doti morali e per la sua preparazione, Mons. Morabito, vescovo di Mileto, lo trattenne presso di sè e lo volle insegnante di materie letterarie in quel seminario vescovile.

Con grande piacere devo, inoltre, riportare le parole con cui l'amico Pasquale Barbatano mi ha dedicato la copia di un suo libro ricordando proprio i momenti in cui, a "Villa Lopez", fece la scoperta di questa traduzione in calabrese della somma opera di Dante: "Ho girato il mondo in lungo ed in largo ma una parte del paradiso l'ho trovato quì! In questa casa deliziosa."

Un'ultima precisazione: ho dato titolo a questo post "U' Paradisu", anche se in realtà l'opera si apre con "U' Mpernu", per i versi con i quali l'autore esprime le proprie sensazioni nel concludere il suo lavoro e per il riferimento a Villa Lopez nella dedica dell'amico Pasquale Barbatano.

martedì 3 giugno 2008

"Vorrìa"

Questa è una poesia scritta da un cittanovese emigrato in Svizzera.
Lasciò la sua casa e la sua terra, la sua piccola vigna ed i suoi affetti, ancora ragazzo ed in questi versi canta i suoi ricordi ed il suo dolore, dopo anni e anni ancora così vivo, per aver lasciato la propria terra; canta la propria amarezza nel capire che il benessere trovato in un altra terra, lontano dalle sue radici, non l'ha compensato per tutto quello che ha lasciato quì: "ero ricco e non lo sapevo" !

" Vorrìa mu 'ndaju l'ali pemmu volu, supa lu tettu di la casa mia
e poi mu trasu di lu fumaloru, comu li maghi di la fantasia.

Mu tornu jeu vorrìa cotraredu e pemmu vaju natra vota 'a scola
cu pinna calamaru e codernedu mu 'paru ancora megghju la palora

Mi piaciaria mu jocu a campanaru 'ntra chida chiazza china di cotrari
e' mu sentu gridari 'u coddararu: "Coddari belli! Pentuli! Cortari!"

Vola penzeredu, vola vola undi ancora volanu 'i linduni
supa a casi, rovini, e fannu spola nidìandu 'ntra li corniciuni.

Vorrìa mu tornu ancora 'a la Cabeda comu 'a la gita dì la classi dì la scola
quandu pe' na bionda cumpagneda 'ntra 'na timpa cogghjia la prima viola.

Supa la chioma d'oru 'ncì la posai. E m'arridìu la bella 'ntimiduta,
cù chidi occhji di celu, belli assai e fù l'ura 'cchiù bella di la vita.

Comu vorrìa mu passu i' chida strata e mu la viju arretu i' chidu velu
chi mì guardava timida 'npacciata e bella comu n'angialu du' cielu.

Vorrìa tantu mu' tornu a'chida vigna; abbandunata comu nà costera
d'arburi servaggi e di gramigna, e mu' la fazzu bella comu era

quandu campava patrima e vorrìa pemmu lu' viju ancora affàccendatu
chi' tagghja e liga cimi, e mamma mia chi' canta nu' sturnellu 'appassiunatu.

Vorrìa mu tornu ancora a Plenura 'ntra chidu paradisu di' cerdinu
mu' cogghju la recina stramatura chi' 'ntra la vucca spruculija vinu.

Milli e 'ducentu litri, 'ntra lì gutti di Barbatanu, e quandu a' San Martinu
mentìa la frasca supa a' lu portuni 'ntra 'nna jornata li vindija tutti.

Vorrìa mu' tornu dà! Undi dassai la casiceda mia e m'a' fujia
mu' cercu chidu chi' poi non trovai mentri era riccu e 'no lu sapìa.

Quandu chida matina chi' partìa lu celu era nigru e senza stidi
e 'u cori meu tremandu mi dicìa: "pensa a' la mamma, fighjiu, pensa a' ida"!

Nu jornu poi calau la' hjiumara scippandu viti, arburi, arangari
dassandu sulu petri e rina amara pe' st'occhji vecchi e stanchi pe' guardari.

Chista esti la vita, chista pe' penzari e chistu esti quantu jeu mi meritai.
E comu potarìa mo' cantari cu' stù cori chi no' scorda mai?"


Pietro A. Muratori