"E' un privilegio preparare la stanza in cui dormirà qualcun altro"
E. Jolley
"Villa Lopez" è un Bed & Breakfast che offre ai suoi ospiti calda accoglienza, intimità, relax, eleganza e cura in ogni particolare.
Il suo blog nasce per raccontare le piccole straordinarie storie di amicizia nate tra una torta di mele ed una chiacchierata in giardino all'ombra "du' Chiozzu", il vecchio gelso che stende i suoi ombrosi rami, paterno e protettivo, e la cui maestosa mole parla di secoli di vita e sembra quasi raccontarti di tutti i monelli che ogni primavera davano la scalata ai suoi rami per "rubare" le sue more.
Tra le pagine di questo blog troverete i pensieri, a volte vere poesie, lasciati dai miei ospiti, veri protagonisti della vita di questo bed&breakfast; troverete pagine scritte proprio da alcuni di loro; troverete, a volte, riflessioni e considerazioni sui problemi di quest'angolo di Calabria e sul turismo; troverete leggende e racconti nati dalla fantasia popolare e tramandati nei secoli; poesie e brani di autori calabresi, spesso sconosciuti.
Il mio invito, a tutti i visitatori di questo blog, a lasciare i propri pensieri e commenti dando così vita e seguito a tante altre bellissime storie di simpatia ed amicizia.


Accomodatevi, prego, se desiderate visitare il mio bed & breakfast

martedì 24 giugno 2008

"Dhi Sira"; traduzione

Per fare un "regalo" a chi mi segue e calmare così la "sete di sentimenti" vado a tentare la traduzione dei versi, del post precedente, con tutta la modestia di chi vuole solo rendere onore alla Poesia riconoscendo i limiti entro i quali ci costringe il cambio di idioma; è il cruccio di ogni traduttore l'impossibilità di rendere i sentimenti e le emozioni, espressi dall'autore, con la stessa intensità.
In ogni idioma ci sono "espressioni" che sono praticamente intraducibili perchè il "sentimento" al quale danno forma risulta diverso pur se espresso con le stesse parole. Chiedo a tutti perdono, quindi, se il mio intervento non darà le stesse emozioni del testo originale.


"Di Sera"


E' notte; io sono quì, fumo e penso a te
Un bimbo piange in una casa
forse neanche lui ha come me
una mamma che gli dia cure e baci

Chi lo sà se tutto il giorno per un tozzo (di pane)
andò piangendo senza neanche trovarlo
e senza un morso (di pane) in gola*
piangendo per la fame al letto se ne andò

O se (suo) padre tornò ubriaco
e si sfogò con quell'innocente;
o se la madre neanche ebbe il tempo
per distrarlo con una fiaba

Chissà, chissà! Ma intanto non si da pace
per calmarlo nessuno si avvicina.
Io sono sazio e la mia mente è lieta
ma tu mi manchi; è questa la mia spina.



* Nel testo originale "nthra lu gozzu"; espressione tipica della zona che si rifà al modo con il quale gli uccelli cibano i propri piccoli che hanno quindi la "gola" piena prima che il cibo scenda per essere digerito.


A Renata che fedelmente mi segue su questo piccolo blog;
A Laura che si è innamorata tempo fà di questa terra e, regalandomi una immensa gioia, dice di sentire quì un pò di "aria di casa";
A tutti coloro che mi seguono non so se con interesse o con curiosità ma tutte due mi sono ugualmente gradite.

venerdì 20 giugno 2008

"Dhi Sira"

"Esti notti; jeu su chi fumu e penzu a' ttia....
Nu' cothraredhu ciangi 'nthra na' casa
Forzi idu mancu 'ndavi com'a' mia
Na mamma mu' l'addubba e mu' l'abbasa

Cu' sapi si tutt'oji pe' nu' tozzu
Jiu lamijiandu e mancu lu throvau
Senza na' muzzicata 'nthra lu' gozzu,
Ciangendu pe' la fami si curcau.

O si lu pathri si cogghjiu 'mbrjiacu
E si sfogau cu' chidhu 'nocentedu;
O si la mamma mancu 'ndappi abbacu
Pemmu lu' 'nganna cu' nu fattaredhu

Va bbi, va bbi! Ma tantu no' 'nzacqueta
Pemmu lu carma nudhu s'abbicina.
Jeu sugnu saziu, la me' menti esti leta
Ma tu mi manchi; esti chista la me' spina."


Anonimo; Cittanova 8 Settembre 1898


Il manoscritto, venne ritrovato in un'antica casa di Cittanova e in origine, secondo la numerazione dello stesso autore, era composto da 60 pagine delle quali 16 sono andate perdute e sono datate tra la fine dell'Ottocento ed i primi anni del Novecento.
Infruttuose si sono rivelate le ricerche effettuate per identificarne l'autore; non sono state ritrovate pubblicazioni del manoscritto nè è stato possibile attribuirlo, come opera inedita, ad alcun poeta cittanovese noto.
I versi che ho quì trascritto raccontano uno spaccato molto triste e amaro di una Calabria dove convivevano povertà e ricchezze.
Il manoscritto è stato pubblicato nel 2000 a cura del Circolo Rhegium Julii con il titolo 'U Ventagghiu.

venerdì 13 giugno 2008

"Una Fiaba per Tutti"



"Dovessi raccontarti una fiaba cercherei
nell'acqua invisibile della notte
la vacanza assoluta del pensiero,
nel cuore l'ombra dei fantasmi
che frastornarono i sensi mischiando
al tuo tempo il mio diverso tempo.

Appunto cose avvenute e dimenticate,
imperfetti cristalli depositati nel buio,
della memoria, confusione dei linguaggi.

Giammai
l'incredibile mondo degli alberi
e la giostra delle farfalle sui fiori,
ma i cavalieri disarcionati
e l'ira dei cavalli selvaggi.

Se dovessi raccontarti una fiaba,
comincerei dacchè tutto è finito."



Nessuna mia parola potrebbe mai aggiungere nulla a questi versi, potrebbe solo appannarne la luce.
Solo un "grazie" a Raffaele Romano Giovinazzo, il poeta autore di questa meravigliosa fiaba, per questo suo regalo.

giovedì 12 giugno 2008

U' Paradisu

Il vecchio gelso!
Per meglio dire "u' Chiozzu"!
Sei l'ultimo sopravissuto di una piantagione di gelsi; le tue foglie hanno nutrito per secoli i Bachi da seta che generazioni di fanciulle hanno filato.
Quante meravigliose tele e splendidi ricami con quel lucido filo d'oro!
E quante generazioni di ragazzi si sono arrampicate sui tuoi rami per rubarti le dolcissime more!
Quanti di quei ragazzini, ormai canuti, si fermano a guardarti ricordando i giorni delle loro marachelle. Tanti tra loro non possono più tornare ma i loro ricordi aleggiano ancora quì ed i loro occhi lucidi nel volgere lo sguardo verso i tuoi frondosi rami vivono per sempre nella tua memoria, custoditi dalla tua dura corteccia scolpita dai secoli.
Oggi vecchi e nuovi amici si siedono a riposare al fresco dell'ombra che regali generoso.

Ad un tuo caro vecchio amico dedico questi versi della cui esistenza, con l'entusiasmo proprio dell'archeologo della letteratura, venne a conoscenza proprio all'ombra dei tuoi rami e con i quali apre ogni nostra conversazione.



"Fatta di l'anni la mità ccaminu,

mi vitti 'nta nu voscu 'ntrizzicatu,

ca' di la strata no' ngagghjai mu minu.

E chi bi' cuntu d'undi era ficcatu?

'nta spini e stroffi no' pigghjava pista

chi mu' li penzu m'attrassa lu' hjiatu.

Ch'eni la morti si no' era chista?

ma, pe' lu bonu c'àju di cuntàri,

'ncignu a' cuntàri chi' mi vinni 'mbista."

Per chi non ha dimestichezza con la lingua calabrese citerò solo il primo verso dell'opera eccelsa di cui questi versi aprono la traduzione appunto in calabrese:

"Nel mezzo del cammin di nostra vita

Mi ritrovai per una selva oscura .............."

L'opera di traduzione della Divina Commedia in lingua calabrese impegnò gran parte della vita di Don Giuseppe Blasi, sacerdote e poeta, la cui vasta produzione letteraria rimane ancora oggi quasi completamente sconosciuta poichè le sue opere permangono quasi tutte inedite. Si può riconoscere nella traduzione la lingua parlata a Laureana di Borrello della cui zona era originario l'autore.

E' d'obbligo chiudere con gli stessi versi con cui l'autore sciolse il suo "Halleluja" quando, il 15 ottobre del 38 arrivava "ncima a lu Paradisu":

"Fici chi' potti fari.... chi' bboliti?

Si megghjiu lu volivu traduciutu

provati vui e bbidìti s'arrescìti.....

Aju mu' lodu a' Ddeu di quantu ajutu

mi dezzi: di' li magghji di 'sta riti

mu' nesciu e nnommu restu 'nsollenutu."

Ho cercato sul web notizie sulla vita di Don Giuseppe Blasi e sulle sue opere senza trovarne la minima traccia per cui l'unica fonte alla quale posso attingere è proprio l'edizione della sua "Divina Commedia".

Giuseppe Blasi nacque a Bellantone (RC) il 6 aprile del 1881 dove morì il 20 gennaio del 1954. Fù seminarista a Messina dove ebbe modo di conoscere Giovanni Pascoli, che all'epoca insegnava presso quella università; passò quindi al seminario vescovile di Mileto dove compì gli studi classici dimostrando si da allora il suo forte ingegno. Conseguì la maturità classica, da esterno, a Napoli. Fù ordinato sacerdote nel 1904 e, per le sue doti morali e per la sua preparazione, Mons. Morabito, vescovo di Mileto, lo trattenne presso di sè e lo volle insegnante di materie letterarie in quel seminario vescovile.

Con grande piacere devo, inoltre, riportare le parole con cui l'amico Pasquale Barbatano mi ha dedicato la copia di un suo libro ricordando proprio i momenti in cui, a "Villa Lopez", fece la scoperta di questa traduzione in calabrese della somma opera di Dante: "Ho girato il mondo in lungo ed in largo ma una parte del paradiso l'ho trovato quì! In questa casa deliziosa."

Un'ultima precisazione: ho dato titolo a questo post "U' Paradisu", anche se in realtà l'opera si apre con "U' Mpernu", per i versi con i quali l'autore esprime le proprie sensazioni nel concludere il suo lavoro e per il riferimento a Villa Lopez nella dedica dell'amico Pasquale Barbatano.

lunedì 9 giugno 2008

"Nero dell'orto"

La vita di "Villa Lopez" la raccontano i fiori, la piccola Milù, la voce antica "Du' Chiozzu" solitario e le tante voci degli amici che qui si fermano, baldanzosi o perplessi viaggiatori, portando le loro storie.

Le voci ed i volti rimangono qui e continuano a raccontare di simpatia, di amicizia e di piccoli momenti speciali dai commenti che hanno scritto, dai dipinti nei quali hanno dato colore alle loro emozioni, dalle foto e dalle poesie o dai libri che mi hanno lasciato od inviato una volta tornati al proprio mondo.
Nella memoria di "Villa Lopez" rimangono indelebili tutte le meravigliose chiacchierate iniziate a colazione, accompagnate dal profumo del caffè e delle torte, e proseguite in giardino o tra i libri oppure nei piacevoli pomeriggi quando si cerca riparo dall'afa nella frescura dell'ariosa cucina.

Uno sguardo al cielo appena velato dallo scirocco e poi giù, ad abbracciare la chiesa, seguire il profilo della collina ........ ed il ricordo di un pomeriggio seduti in cucina, una tazzina di caffè, lo sguardo che scivola sul verde fresco e profumato del giardino, nell'armonia delle cose la piacevole consapevolezza del medesimo sentire, nei versi di una poesia tutta la struggente e muta sofferenza della fedeltà nella solitudine.....


"In un angolo di terra
consuma le sue giornate.
Assi di legno l'ombra per l'estate,
Acqua e freddo compagni d'inverno.

Il canto breve delle galline
il loro curioso
ed instancabile becchettare
accompagnano il suo tempo.

Voci umane.....
qualcuno si avvicina, passa e si allontana.
Avanti e indietro
nello spazio che la catena regala,
Avanti e indietro
nell'attesa piena di speranza .......
di vedere il Padrone.

"E' feroce il mio cane,
cinque anni a catena! Ora ha zanne pronte a lacerare."
Si vanta l'Uomo Padrone.
Lasciagli quest'illusione, Nero,
ricaccia dentro di te
la voglia di una carezza. "


I versi sono di Antonino Longo
dal suo libro "Cane e Catena ..... in fondo agli occhi l'anima"

giovedì 5 giugno 2008

Terenzio il Sarto

Nel 1835 Alessandro Dumas (padre) intraprese un viaggio in Sicilia e Calabria, sulla scia di tanti altri famosi viaggiatori inglesi e tedeschi che avevano "scoperto" l'esistenza della Calabria grazie, purtroppo, al terremoto del 1783, ancora vivo nella memoria popolare, degli abitanti di questa parte della provincia reggina, per la terribile violenza con la quale rase letteralmente al suolo molti dei paesi della Piana di Gioia Tauro (Piana degli Ulivi) e che addirittura, nelle zone vicine all'epicentro, modificò la morfologia del terreno cancellando montagne ed aprendo profonde voragini tanto da essere a tutt'oggi ricordato come "Il Flagello".

Com'era consetudine, per i viaggiatori del tempo, percorse la Calabria a piedi ma solo in parte; in alcuni tratti si mosse via mare onde evitare le zone dove il percorso via terra sarebbe stato impervio o pericoloso.
In questo suo viaggio in Calabria la sua anima di scrittore subì il fascino delle leggende e dei racconti delle gesta dei briganti ingigantite dalla fantasia popolare e che gli servirono come spunto per le trame dei suoi romanzi.
Tre romanzi, in particolare, vennero ambientati in Calabria; "Le Capitaine Arena", "Maitre Adam le Calabrais" e "Cherubino et Celéstine".

Questo è uno dei racconti da lui raccolti in questo suo viaggio ed è tratto appunto dal suo libro "Viaggio in Calabria".

"Era una bella sera d'autunno, mastro Terenzio, sarto a Catanzaro aveva litigato con la signora Giuditta, sua moglie, a causa di un piatto di "maccarruni" che costei, da quindici anni che i coniugi erano sposati, si ostinava a preparare in un modo diverso da come mastro Terenzio li preferiva. Da quindici anni tutte le sere, alla stessa ora, la lite si rinnovava per la stessa causa.
Quella volta la lite era andata così lontano che, ritirandosi nella sua stanza, Giuditta aveva lanciato a mo' d'addio a suo marito un portaspilli ben guarnito ed il proiettile aveva colpito il povero sarto tra le due sopraciglia. Ne era risultato un dolore immediato da portare l'esasperazione del povero uomo al punto da fargli esclamare "Oh! Quante cose darei al diavolo se mi sbarazzasse di te!", "Eh! Che gli daresti, pezzo d'ubriaco?" esclamò la signora Giuditta, che aveva sentito, riaprendo la porta.
"Gli darei" esclamò il povero sarto "questo paio di calzoni che faccio per don Girolamo, parroco di Simeri!", "Disgraziato!" rispose Giuditta "Faresti meglio a glorificare il nome del Signore che t'ha dato una donna paziente come me piuttosto che invocare il nome di Satana." E richiuse bruscamente la porta della sua stanza. Mastro Terenzio attese ancora un po fermo ed in silenzio nel timore che Giuditta tornasse per continuare la lite e convintosi di essersene liberato per quella sera si dispose a tornare al suo lavoro.
Il suo stupore fu però grande quando, rivolgendo lo sguardo verso i calzoni di don Girolamo che erano poggiati sulle sue ginocchia, scorse di fronte a lui, un vecchietto dall'aspetto piacevole, vestito tutto di nero, con i gomiti appoggiati sul banco da lavoro ed il mento tra le mani.
Il vecchietto e mastro Terenzio si guardarono un istante negli occhi; poi mastro Terenzio, rompendo per primo il silenzio: "Scusate, Eccellenza, ma posso sapere cosa aspettate?" "Che cosa aspetto!" chiese il vecchietto? "Devi ben saperlo!"
"No! Che il diavolo mi porti via!" rispose Terenzio.
A queste parole avreste dovuto vedere la gioia del vecchietto; gli occhi gli brillarono come la brace, la sua bocca si aprì fino alle orecchie e dietro di lui si sentì una cosa che andava e veniva, scopando il pavimento.
"Che cosa aspetto! Ebbene aspetto i miei calzoni." "I vostri calzoni? Ma voi non avete mai ordinato dei calzoni!"
"E' vero! Ma tu me li hai offerti ed io li accetto." "Io! Offerto dei calzoni? Quali?"
"Quelli!" disse il vecchio indicando i calzoni su cui il sarto lavorava; "Ma questi appartengono a don Girolamo, il parroco."
"Cioè appartenevano a don Girolamo sino ad un quarto d'ora fa, adesso sono miei. Non hai forse detto che avresti dato quei calzoni se ti avessero sbarazzato di tua moglie? Ebbene accetto il baratto; in cambio dei calzoni ti porto via tua moglie. E lo farò appena li avrò indossati." Il sarto sempre più stupito esclamò "Veramente? Oh, che gentiluomo. Permettetemi di abbracciarvi."
"Così siete venuto per questo! Che bravo gentiluomo! E vi accontentate di un paio di calzoni? Di così poco! E appena saranno pronti vi porterete via mia moglie, vero?" mastro Terenzio era pieno di gioia e si rimise a cucire con tanto entusiasmo che non si vedeva neanche la mano andare e l'opera avanzava con una rapidità miracolosa. Ma ciò che sembrava più stupefacente in tutto questo e che lasciava sorpreso mastro Terenzio era che, benchè i punti si susseguissero con rapidità, il filo restave sempre della stessa lunghezza senza bisogno d'infilare l'ago sì che avrebbe potuto non solo completare i calzoni del vecchio ma cucire tutti i calzoni del reame delle Due Sicilie. Fenomeno questo che gli gli diede da pensare, per la prima volta, che il vecchietto poteva essere realmente ciò che sembrava.
Mentre lavorava alacremente mastro Terenzio cominciò a riflettere su questo nuovo pensiero ed il vecchietto percependo forse i dubbi che affollavano adesso la mente del sarto tirò fuori dalla tasca una bottiglia piena di un ottimo elisir che offrì al sarto e, intanto che chiacchieravano, il sarto proseguì nel suo lavoro fino a che un'esclamazione del vecchio non lo fece sobbalzare dal suo banchetto " Ebbene, che fai?" gli chiese, mastro Terenzio lo guardò con stupore"Che faccio?" "Si, che fai? Stai chiudendo il fondo dei miei calzoni." "Certo, lo chiudo." "Allora dove passerà la coda?" "Quale coda?" "La mia." "Ah! E' la vostra coda che fa questo fruscio sotto il tavolo? Allora, in questo caso" disse il sarto, ridendo di tutto cuore, invece di spaventarsi come avrebbe dovuto ad una risposta simile, "so chi siete e dato che avete una coda non sarei neanche stupito di sapere che avete un piede biforcuto, eh?" "Certo", disse il vecchio, "Guarda!" E alzando la gamba la passò attraverso il banco come se avesse dovuto attraversare un foglio di carta. E mostrò un piede biforcuto come quello d'un becco. "Bene!" Disse il sarto "Bene! Giuditta deve solo comportarsi bene!" e continuò a lavorare con tale velocità che qualche istante dopo i calzoni furono pronti. Mentre mastro Terenzio dava gli ultimi tocchi ai calzoni tutto soddisfatto del suo operato, lo strano vecchietto tirò fuori dalla tasca un violino ed un archetto dicendo "Adesso che tu hai mantenuto la tua parola, io devo mantenere la mia." E si mise a suonare una musica così vivace e trascinante che al primo accordo Terenzio si trovò in piedi sul banco come se l'avessero sollevato per i capelli e si mise a ballare con una tale frenesia di cui, anche se a quei tempi era ritenuto un bravo ballerino, non aveva mai avuto idea. Ma non fu tutto! Mastro Terenzio passava alternativamente dall'incredulità al più completo stupore mentre osservava tutti gli oggetti della stanza alzarsi volteggiando e iniziare a loro volta una incredibile danza. Ma tanto rumore svegliò la signora Giuditta che venne fuori dalla sua stanza; un silenzio di tomba seguì l'apparizione di tale degna donna che adesso era fuori di sé per la collera nel vedere che il marito approfittava del suo sonno per divertirsi. Ma Giuditta non era donna da trattenere la sua rabbia e restare immobile difronte ad un simile oltraggio così che afferrò le molle del camino per andare a strigliare ben bene suo marito. Terenzio però conosceva bene il suo carattere e mentre lei afferrava l'arma lui passò lesto sotto il banco e prendendo il diavolo per la sua lunga coda si fece scudo del suo alleato; sfortunatamente Giuditta non era una donna che contava i suoi nemici e, dato che in simili momenti occorreva che si scagliasse contro qualcuno, andò dritta verso il vecchio che la guardava con aria beffarda e gli sferrò con tutta la sua forza un colpo sulla fronte, ma con suo grande stupore il colpo non ebbe altro risultato che far venire fuori dalla parte colpita un lungo corno nero. Giuditta raddoppiò e colpì dall'altro lato; ne venne fuori un secondo corno uguale al primo. Giuditta cominciò a capire con chi aveva a che fare e pensò di rientrare nella sua stanza, ma nel momento in cui stava per varcare la soglia, il vecchio portò il violino sulle spalle, posò l'archetto sulle corde e diede inizio ad un'aria di valzer, così gaia e così trascinante che, quantunque il cuore di Giuditta fosse poco disposto alla danza, il suo corpo costretto ad ubbidire si mise a ballare freneticamente, benchè la donna lanciasse alti urli e si tirasse i capelli per la disperazione. Ciò durò circa dieci minuti, durante i quali il vecchio aveva l'aria di divertirsi molto, ed infine Giuditta cadde ansimante sul pavimento. "Adesso" disse il musicista, con una piccola pausa, "Poichè tutto ciò non è che un preludio ed io sono un uomo di parola, mio caro Terenzio andate ad aprire la porta; suonerò un'aria solo per Giuditta e ce ne andremo insieme a ballare all'aria aperta."
Sentendo queste parole Giuditta lanciò un urlo terribile e cercò di scappare; ma nello stesso momento risuonò una nuova aria e Giuditta, trasportata da potenza sovrannaturale, si rimise a saltare con vigore nuovo ed intanto supplicava mastro Terenzio, che per ciò che c'era di più sacro al mondo, impedisse che il corpo e l'anima della sua povera donna seguissero una simile guida. Ma il sarto, sordo agli urli di Giuditta, come Giuditta lo era stata ai suoi, aprì la porta come gli aveva ordinato il gentiluomo cornuto; in breve tempo il vecchio se ne andò, saltellando sui suoi piedi forcuti, seguito da Giuditta che torceva le braccia dalla diasperazione mentre le sue gambe battevano le capriole più smodate e le "bourrées" più frenetiche. Il sarto li seguì per un po per vedere dove andavano; li vide dapprima attraversare ballando un piccolo giardino, poi inoltrarsi in una stradetta che dava sul mare ed infine sparire nell'oscurità. Per un po continuò a sentire il suono stridente del violino, il riso acido del vecchio e le urla disperate di Giuditta; poi musica, riso e gemiti cessarono; seguì un rumore come quello di un'incudine arroventata immersa nell'acqua; un lampo veloce solcò il cielo spandendo uno spaventoso odore di zolfo in tutta la contrada. Poi tutto rientrò nel silenzio e nell'oscurità.
L'indomani, dopo aver dormito come non gli succedeva da dieci anni, Terenzio si alzò e, per rendersi conto del cammino che aveva fatto sua moglie, seguì le tracce del vecchio gentiluomo; cosa abbastanza facile perchè il suo piede biforcuto aveva lasciato impronte sulla terra del giardino e poi sulla sabbia della spiaggia dove si perdevano nella schiuma in riva al mare.
Da quel momento il sarto è l'uomo più felice della terra.



martedì 3 giugno 2008

La Leggenda di Kore

Apriamo, con la storia di Kore, una serie di racconti dedicati allo studio dei miti che diedero origine alle leggende e alle storie che raccontano, testimoni inconfutabili, delle origini così antiche e meravigliose di questa terra.
Arrivate sino a noi dalle profondità dei secoli, a volte ancora vive solo nei nomi dei luoghi, degli animali o delle cose a loro legate, suonano oggi incredibilmente sorprendenti e straordinarie nella loro semplicità come nella loro importanza.

Basta salire su per i sentieri che attraverso i boschi ti portano alla montagna o scendere giù al fiume per risalire poi verso la sorgente per lasciarsi dietro il mondo con i suoi rumori ed i suoi problemi ed entrare in un'altra dimensione, fare un salto indietro nel tempo, cancellare i secoli.
Basta lasciare che gli alberi con le loro cime lanciate verso il cielo ed il gorgoglio delle fresche cascate ci sussurrino dolcemente all'orecchio della vita di dei e di splendide fanciulle, di animali che vivono qui da millenni e che ci osservano, saggi ed impassibili dall'alto dei rami o da dietro i cespugli del sottobosco.

In autunno od in inverno, se presti attenzione, dal bosco ti giunge il richiamo della Fassa (columba palumbus) legata più che mai alla più antica leggenda di questi monti, quella che parla di una colomba selvatica mutata in una splendida fanciulla, Kore, venerata tra il VI e IV secolo a.C dallo Jonio al Tirreno e sull'altipiano delle Serre con il nome di Persefone.
Nella Locride, dove più forte era il suo culto, le erano devote le giovani prossime alle nozze e la sua storia è documentata anche nei "pinakes", tavolette di argilla con disegni impressi a rilievo, ritrovate in una contrada nei dintorni di "Locri Epizephiri".
La storia è semplice nella sua origine.
Il colombaccio è un docile volatile che, naturalmente, predilige i campi di grano e con il suo verso profondo, la voce appunto o, per meglio dire, la "Fonè", preannuncia la primavera ed il maturare delle spighe. Da quì la favola di questo volatile caro a Demetra dea delle messi mutato in Kore, sua figlia, che prende in tutto il Mediterraneo, con diverse similitudini, il nome di "Persefone" o "Perifoneia" o "Perifassa" e che racchiude in sè la "fonè" ed il nome stesso del volatile, la "fassa".

Kore-Persefone, bellissima fanciulla figlia di Zeus e Demetra, era stata destinata in matrimonio, dal padre ed all'insaputa della madre Demetra, ad Ade signore degli Inferi e zio della fanciulla.
In un giorno di primavera la fanciulla raccoglie fiori insieme alle sue compagne quando "Gaia", la madre terra, fà spuntare davanti alle mani di Kore un magnifico e profumatissimo narciso, fiore del sonno e della morte ma anche della rinascita poichè la sua fioritura preannuncia la primavera. La fanciulla colpita dalla bellezza e dall'intenso profumo del fiore si china a raccoglierlo quando si apre la terra e dalle sue profondità viene fuori Ade, il cui nome significa "senza via di uscita", che la rapisce portandola nel suo regno e facendo di lei la regina dei morti.
La fanciulla chiama disperatamente quanto inutilmente il padre e la madre, nessuno sente la sua voce, mentre Demetra la cerca ovunque e saputo del rapimento implora Zeus, minacciando carestie, finchè il re dell'Olimpo ed Ade non decidono che Persefone torni sulla terra a riabbracciare la madre e giocare con le altre fanciulle quando spunta la prima spiga, fiorisce il narciso e torna il tubare della Fassa, cioè dall'inizio della primavera, per ritornare nel regno degli inferi alla fine dell'autunno quando non ci saranno più fiori e la Fassa ritornerà nei boschi.

Una stupefacente testimonianza della presenza della Fassa in questo territorio montano è data dal toponimo "cucurucà" al piano Melìa vicino allo Zomaro; il toponimo che riproduce esattamente il verso di questo volatile contrassegna quì una profonda vallata, molto accidentata e quasi inaccessibile, sul cui fondo si innalza una collina coperta di lecci secolari ed ancora oggi rifugio delle Fasse.



Per le mie ricerche su questa leggenda come su altre leggende e storie sul territorio di Cittanova e sull'Aspromonte, un fondamentale ed ampio spunto mi è stato offerto dal libro "La Montagna dei sette Popoli" di Domenico Raso.
Vorrei chiudere con le parole stesse dell'autore nella presentazione della sua opera:

"Essa deve e può essere continuata, perfezionata, integrata e persino modificata se le opportunità e gli stimoli offerti (unici motivi di interiore soddisfazione) saranno recepiti ed utilizzati, a Cittanova come altrove, per restituire un volto ed una identità ai nostri misconosciuti territori".

"Vorrìa"

Questa è una poesia scritta da un cittanovese emigrato in Svizzera.
Lasciò la sua casa e la sua terra, la sua piccola vigna ed i suoi affetti, ancora ragazzo ed in questi versi canta i suoi ricordi ed il suo dolore, dopo anni e anni ancora così vivo, per aver lasciato la propria terra; canta la propria amarezza nel capire che il benessere trovato in un altra terra, lontano dalle sue radici, non l'ha compensato per tutto quello che ha lasciato quì: "ero ricco e non lo sapevo" !

" Vorrìa mu 'ndaju l'ali pemmu volu, supa lu tettu di la casa mia
e poi mu trasu di lu fumaloru, comu li maghi di la fantasia.

Mu tornu jeu vorrìa cotraredu e pemmu vaju natra vota 'a scola
cu pinna calamaru e codernedu mu 'paru ancora megghju la palora

Mi piaciaria mu jocu a campanaru 'ntra chida chiazza china di cotrari
e' mu sentu gridari 'u coddararu: "Coddari belli! Pentuli! Cortari!"

Vola penzeredu, vola vola undi ancora volanu 'i linduni
supa a casi, rovini, e fannu spola nidìandu 'ntra li corniciuni.

Vorrìa mu tornu ancora 'a la Cabeda comu 'a la gita dì la classi dì la scola
quandu pe' na bionda cumpagneda 'ntra 'na timpa cogghjia la prima viola.

Supa la chioma d'oru 'ncì la posai. E m'arridìu la bella 'ntimiduta,
cù chidi occhji di celu, belli assai e fù l'ura 'cchiù bella di la vita.

Comu vorrìa mu passu i' chida strata e mu la viju arretu i' chidu velu
chi mì guardava timida 'npacciata e bella comu n'angialu du' cielu.

Vorrìa tantu mu' tornu a'chida vigna; abbandunata comu nà costera
d'arburi servaggi e di gramigna, e mu' la fazzu bella comu era

quandu campava patrima e vorrìa pemmu lu' viju ancora affàccendatu
chi' tagghja e liga cimi, e mamma mia chi' canta nu' sturnellu 'appassiunatu.

Vorrìa mu tornu ancora a Plenura 'ntra chidu paradisu di' cerdinu
mu' cogghju la recina stramatura chi' 'ntra la vucca spruculija vinu.

Milli e 'ducentu litri, 'ntra lì gutti di Barbatanu, e quandu a' San Martinu
mentìa la frasca supa a' lu portuni 'ntra 'nna jornata li vindija tutti.

Vorrìa mu' tornu dà! Undi dassai la casiceda mia e m'a' fujia
mu' cercu chidu chi' poi non trovai mentri era riccu e 'no lu sapìa.

Quandu chida matina chi' partìa lu celu era nigru e senza stidi
e 'u cori meu tremandu mi dicìa: "pensa a' la mamma, fighjiu, pensa a' ida"!

Nu jornu poi calau la' hjiumara scippandu viti, arburi, arangari
dassandu sulu petri e rina amara pe' st'occhji vecchi e stanchi pe' guardari.

Chista esti la vita, chista pe' penzari e chistu esti quantu jeu mi meritai.
E comu potarìa mo' cantari cu' stù cori chi no' scorda mai?"


Pietro A. Muratori